Vaccino anti Covid-19: misura preventiva “più stringente” da adottare sul luogo di lavoro?

Negli ultimi tempi è divenuto ancora, se possibile, più rilevante il tema riguardante la sicurezza nei luoghi di lavoro. Ciò in ragione del contesto pandemico in cui stanno operando le Aziende e tutti i lavoratori.

Le discussioni che sono state fatte, le diverse riflessioni condotte e i confronti che continuano ad aversi in tale materia dimostrano come ci sia più che mai la necessità di sapere, possibilmente a priori, come comportarsi non solo da parte datoriale, ma anche da quella dei lavoratori, i quali dovrebbero essere posti nelle condizioni di conoscere il comportamento da tenere nel proprio luogo di lavoro in termini di collaborazione con il datore di lavoro.

La domanda che si è diffusa è la seguente: il vaccino anti Covid-19 può o, addirittura, deve essere considerato una misura preventiva da adottare da parte del datore di lavoro e, dunque, da imporre ai dipendenti?

E’ vero che senza una legge ad hoc è alquanto difficile rispondere a tale quesito e, di conseguenza, soddisfare l’esigenza dapprima evidenziata. Tuttavia, non si può negare che, medio tempore, datori di lavoro, lavoratori e operatori del diritto si troveranno a fronteggiare i problemi pratici connessi a tale questione, indipendentemente dalle diverse interpretazioni giuridiche offerte al sistema volto a garantire la sicurezza del luogo di lavoro e dalle disparate prese di posizione teoriche e/o di parte.

L’ultima parola, come sempre, spetterà ai Giudici.

Proprio per questo, nell’approcciare la questione, è importante tenere in debita considerazione il costante e granitico orientamento della Suprema Corte, la quale, indipendentemente da affermazioni di principio secondo cui la responsabilità datoriale non sarebbe mai oggettiva, ben poche volte ha disconosciuto la responsabilità datoriale per eventi nocivi accaduti sul luogo di lavoro. Sulla base di un’interpretazione estremamente estensiva dell’art. 2087 c.c., si è formata una rigida giurisprudenza sul piano degli oneri prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro, il quale è obbligato ad adottare qualsivoglia misura di tutela possibile, anche con riguardo a rischi ignorati dallo stesso legislatore (si pensi, ad esempio, al rischio derivante dall’utilizzo dell’amianto).

In tale contesto si colloca quanto dichiarato brevemente e “a caldo” da un magistrato della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, il dott. Roberto Riverso, per anni Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Ravenna.

In conformità al contesto giurisprudenziale dapprima richiamato, con specifico riferimento alla questione dell’obbligatorietà del vaccino anti COVID 19 per i lavoratori, a mio avviso in modo condivisibile, il dott. Riverso ha ricordato quanto segue: «Occorre chiedersi anzitutto se possa esistere che in nome della libertà di cura si metta a repentaglio la salute collettiva, dei colleghi e dei terzi presenti nell’ambiente di lavoro. Questo è il punto di caduta dinanzi alla drammatica epidemia in corso, da cui non si può prescindere. Si afferma per solito che senza una legge specifica ex art. 32 Cost. il lavoratore sia libero di non vaccinarsi. In realtà, nel rapporto di lavoro, bisognerebbe muovere dal “principio di prevenzione”, dal TU 81/08 (artt. 279, 42), dall’art. 2087 c.c., dall’art.3 Cost. Se, come penso, in presenza di rischio Covid qualificato (laboratori, ospedali, r.s.a., ambienti assimilabili per livello di rischio), il datore sia già obbligato, in base alle norme cit., a chiedere la vaccinazione quale misura di protezione della salute nell’ambiente di lavoro (salvo risponderne in tutte le sedi), anche il lavoratore sarà parimenti obbligato, in base alla legge (art. 20 TU) a prestare la propria collaborazione, vaccinandosi. Non può esserci scarto tra gli obblighi del datore e quelli del lavoratore in materia di sicurezza, né alcuna discrezionalità rispetto a misure da ritenere tutte necessarie; salvo ipotizzare l’incostituzionalità (ex artt. 32 e 3 Cost.) del TU e dell’art. 2087 c.c., come si evince dalle note sentenze della Corte Cost. 218/92 e 258/94 (con cui ha dichiarato come obbligatori gli accertamenti sulla sieropositività HIV per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute dei terzi) ».”.

La riflessione del dott. Riverso appare rispecchiare l’orientamento e (perché no?) l’approccio giurisprudenziale formatosi in questa materia.

Del resto, non si può dimenticare l’altra faccia della medaglia. Cosa succederebbe se un dipendente non vaccinato venisse contagiato sul posto di lavoro? A chi farà causa? E, a quel punto, il datore di lavoro, benché abbia adottato tutte le misure di sicurezza possibili, ma non abbia imposto il vaccino, potrà agire in via di regresso verso l’“untore”?

Ecco, dunque, che risulta comprensibile quanto dichiarato dal dott. Riverso: “Propendo, invece, per un’interpretazione costituzionalmente orientata che miri a responsabilizzare al massimo le parti del rapporto, a fronte della drammatica pandemia. Anche perché mi pare elusivo, sul piano sistematico, far scadere il rifiuto di una misura di sicurezza come il vaccino – pregnante questione contrattuale, imputabile alla volontà di una parte – a mera inidoneità professionale: come se il lavoratore fosse malato, o incapace a svolgere le mansioni, mentre è renitente agli obblighi di protezione citati. E’ una tesi che, a ben vedere, indebolisce anche le tutele, conservative e retributive, modulabili meglio sul piano soggettivo, col principio di proporzionalità, piuttosto che attraverso la fattispecie dell’impossibilità sopravvenuta fondata esclusivamente sulla valutazione del residuo interesse alla prestazione del creditore».

Non si nega la necessità di procedere con cautela, sperando che, contrariamente a quanto accaduto nel passato, il legislatore intervenga con un provvedimento ad hoc.

11 Febbraio 2021
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